IL TRIBUNALE

    Pronunziando  nel procedimento n. 1755/2003 R.G.Trib. a carico di
Nikolaeva  Elena,  n. Kirov  (C.S.I.  -  Russia)  il  1° maggio 1969,
arrestata  in  flagranza del reato di cui all'art. 14, comma 5-ter in
relazione  al  comma  5-quinquies  del  d.lgs. n. 286/1998 cosi' come
modificato dall'art. 13, commi 5-ter e quinquies, legge n. 189/2002;
    Sciogliendo  la riserva assunta all'udienza del 9 gennaio 2004 in
ordine  alla  questione  di illegittimita' costituzionale della norma
sopracitata  sollevata  dal  pubblico ministero alla predetta udienza
laddove,  al comma 5-quinquies prevede l'arresto obbligatorio in caso
di  flagranza  di  reato  per  violazione degli artt. 2, 3 e 13 della
Costituzione,  2,  3,  13 e 112 della Costituzione, nonche' 2, 3, 13,
25,  secondo  comma, 27, primo comma e 111, primo e terzo comma della
Costituzione italiana (esposti in articolata memoria scritta);
    Sentite  le  osservazioni  dei difensori dell'imputata i quali si
sono associati, ha pronunciato la seguente ordinanza.
    La  questione sollevata, oltre ad apparire rilevante perche' deve
trovare concreta applicazione nel presente giudizio, appare anche non
manifestamente  infondata. Nikolaeva Elena e' stata tratta in arresto
in  flagranza  del reato di cui all'art. 14, comma 5-ter in relazione
all'art. 5-quinquies, d.lgs. n. 286/1998, come modificato dalla legge
n. 189/2002,   in   data  13  novembre  2003  ore  19,  e  presentata
all'udienza  per  il  giudizio  di convalida, venendole contestato di
essersi   trattenuta   nel   territorio  dello  Stato  in  violazione
dell'ordine  impartitole  in  data  24  gennaio  2003 dal Prefetto di
Sassari.
    Ravvisabile  contrasto  tra  l'art. 14,  comma  5-quinquies e gli
artt. 13 e 3 della Costituzione.
    Si  osserva,  in  primo  luogo, che l'art. 13 della Costituzione,
dopo  avere  stabilito  al  primo comma che «la liberta' personale e'
inviolabile»,  ammette  al  secondo  comma che restrizioni alla detta
liberta' (detenzione, ispezione e perquisizione) siano operabili solo
«per  atto  motivato  dell'autorita'  giudiziaria» e, al terzo comma,
consente all'autorita' di pubblica sicurezza, «in casi eccezionali di
necessita'  ed  urgenza» di adottare «provvedimenti provvisori», «che
devono  essere  comunicati (...) all'autorita' giudiziaria» e che «si
intendono revocati e restano privi di ogni effetto» «se questa non li
convalida».
    Sembra  corretto  ritenere  che  la  norma  attribuisca alla sola
autorita'  giudiziaria  la  competenza  ad  operare restrizione della
liberta'  personale,  invece  riservando  all'autorita'  di  pubblica
sicurezza  non una analoga, seppure piu' limitata competenza, ma solo
il  potere  di intervenire in supplenza ed anticipazione dell'operato
dell'autorita' giudiziaria quando questa, per l'urgenza del caso, non
sia  in  grado  di  intervenire  tempestivamente. Depongono in questa
direzione    la    «provvisorieta»    del    provvedimento   adottato
dall'autorita' di pubblica sicurezza, provvedimento percio' destinato
fin  dall'origine  ad essere trasformato e superato da altro atto; la
eccezionalita'   dei  casi,  evidenziante  la  natura  essenzialmente
derogatoria  dell'intervento  della  polizia  rispetto  al  principio
generale  dell'intervento  dell'autorita'  giudiziaria; la perdita di
ogni  effetto  del  provvedimento adottato dall'autorita' di pubblica
sicurezza,  qualora  questo  non  sia  tempestivamente  comunicato  e
convalidato;   la   stessa  configurazione  dell'atto  dell'autorita'
giudiziaria  come  atto di «convalida», che e' atto, di norma, inteso
come  diretto  all'eliminazione dei vizi insiti in un precedente atto
invalido.
    Conforto  a  questa  lettura  si rinviene in pronunce della Corte
costituzionale,  della  Corte di cassazione e nella disciplina che il
legislatore ha voluto adottare nel codice di procedura penale.
    La Corte costituzionale ha osservato che:
        vi  e'  una regola, che attribuisce all'autorita' giudiziaria
la  competenza  ad  emettere  provvedimenti coercitivi della liberta'
personale, ed una eccezione, rappresentata dal fatto «in se' previsto
dal   testo   costituzionale,  che  gli  organi  di  polizia  debbono
provvedere   in   sostituzione   dell'autorita'  giudiziaria»  e  che
«l'obbligo  del  decreto  motivato  di  convalida  (...)  e' disposto
nell'art. 13,  terzo  comma della Costituzione per ogni provvedimento
provvisorio   preso   dall'autorita'   di   pubblica   sicurezza   in
sostituzione  del giudice» e quindi per ogni provvedimento di arresto
(obbligatorio   o  facoltativo)  o  di  fermo  (Corte  costituzionale
n. 71/173);
        le   finalita'   sottese   all'arresto   in   flagranza  sono
perseguibili     «soltanto    attraverso    l'immediato    intervento
dell'autorita'   di   polizia   in   temporanea  vece  dell'autorita'
giudiziaria,  lontana  normalmente  dalla flagranza o quasi flagranza
dei reati» (Corte costituzionale n. 89/503).
    La Corte di cassazione ha affermato che:
        nel  caso  di  arresto  in  flagranza (secondo la sentenza 14
luglio  1971  n. 173, della Corte costituzionale) il titolo legittimo
della  detenzione  e' costituito da una fattispecie complessa, in cui
l'attivita'    della   polizia   giudiziaria   deve   collegarsi   al
provvedimento  di  convalida  dell'autorita'  giudiziaria,  il  quale
soltanto  costituisce  l'atto  con cui si esercita il controllo della
legittimita'  dell'operato  della polizia giudiziaria e, ad un tempo,
il  titolo  formale  della detenzione stessa, cui la legge conferisce
efficacia ex tunc (Cass., n. 73/297).
    Il  sistema  introdotto  dal legislatore con il vigente codice di
procedura  penale  prevede, infine, che la polizia giudiziaria che ha
eseguito  l'arresto  ne  dia  immediata notizia al pubblico ministero
(art. 386,  comma  1  c.p.p.)  e ponga l'arrestato a disposizione del
pubblico  ministero  al piu' presto e comunque non oltre ventiquattro
ore  dall'arresto  (art. 386,  comma 3 c.p.p.), a pena di inefficacia
dell'arresto    medesimo    (art. 386,    ult.   comma   c.p.p.),   e
correlativamente, attribuisce al pubblico ministero, il potere/dovere
di  sindacare da subito l'operato della polizia giudiziaria, sotto il
profilo  della legittimita', disponendo l'immediata liberazione della
persona  che  sia  stata  arrestata  al  di fuori dei casi consentiti
(art. 389  c.p.p.), e sotto il profilo dell'insussistenza di esigenze
cautelari,  disponendo, anche in questo caso, l'immediata liberazione
dell'arrestato (art. 121 disp. att. c.p.p.).
    Anche  le scelte operate dal legislatore nella materia in oggetto
sembrano dunque orientate inequivocabilmente nel senso di configurare
l'operato   della   polizia   giudiziaria   come  mera  anticipazione
dell'attivita'  giuridica  della  attivita'  giudiziaria,  la  quale,
infatti,  in  tempi tassativamente assai brevi, e' chiamata ad essere
investita  della  questione  e  ad  intervenire  con  le  piu'  ampie
valutazioni,  anche  e  soprattutto  se  dissonanti rispetto a quelle
della  polizia  medesima.  Una lettura nel senso anzidetto appare del
resto  in  linea  con  quanto  affermato,  sia pure con riferimento a
problematica  diversa,  dalla  Corte costituzionale, secondo la quale
«la  presentazione  per  il  giudizio  direttissimo  da  parte  degli
ufficiali  ed  agenti  di  polizia  giudiziaria  non  rappresenta una
attivita'  ad  iniziativa  della  polizia giudiziaria ma una sorta di
attivita'  delegata  del  pubblico  ministero che si esplica sotto il
costante  controllo  di  quest'ultimo,  al  quale  deve  essere  data
immediata   notizia   dell'arresto   e  che  e'  tenuto  a  formulare
l'imputazione» (Corte costituzionale n. 98/374).
    In   sintesi,  sembra  corretto  concludere  che  sia  il  tenore
letterale della norma, sia l'orientamento interpretativo espresso con
le  descrizioni citate, sia l'impostazione che l'ordinamento positivo
e'  andato  via  via assumendo nel tempo, soprattutto nell'ambito del
procedimento  penale,  convergono  nell'escludere che l'art. 13 della
Costituzione  attribuisca  all'autorita'  di  pubblica  sicurezza  un
autonomo  potere  di  limitazione  della  liberta'  personale, mentre
invece  inducono  a  ritenere  che  esso legittimi l'anzidetto potere
esclusivamente   in  quanto  anticipazione  e  supplenza  del  potere
dell'autorita'  giudiziaria:  con l'ovvia, necessaria conseguenza che
all'autorita'  di  pubblica  sicurezza  non  puo' essere conferito un
potere piu' esteso di quello riconosciuto all'autorita' giudiziaria.
    Ebbene,  nei  confronti di chi sia indagato per il reato previsto
dall'art. 14,  comma  5-ter del d.lgs. n. 286/1998, come recentemente
modificato,  l'autorita'  giudiziaria  non dispone di alcun potere di
limitazione della liberta' personale in quanto:
        l'illecito  e'  configurato  come  contravvenzione punita con
pena  dell'arresto  da  sei mesi ad un anno e dunque, in quanto tale,
risulta  completamente  estraneo  alla  previsione  degli artt. 272 e
seguenti c.p.p. in materia di misure cautelari;
        non    si    rinvengono   norme   speciali   che   consentano
l'applicazione   di   misura   cautelare  in  deroga  alle  anzidette
disposizioni generali.
    Appare  dunque seriamente ipotizzabile un contrasto dell'art. 14,
d.lgs.  n. 286/1998,  come  modificato dalla legge n. 189/2002, nella
parte  in  cui, attribuendo alla polizia giudiziaria il potere/dovere
di  procedere  all'arresto  (per  giunta obbligatorio) dell'indagato,
conferisce  alla  stessa  un  potere  autonomo e superiore rispetto a
quello di cui dispone l'autorita' giudiziaria.
    Non  vale ad escludere la sussistenza di un ravvisabile contrasto
tra   la   norma   in   esame   e  l'art. 13  della  Costituzione  la
considerazione che, attraverso l'attivazione dell'art. 121 disp. att.
c.p.p., la liberta' dell'indagato verrebbe comunque salvaguardata: il
meccanismo  approntato  dalle  disposizioni  del  codice di procedura
penale  e'  si  congegnato  in  modo  da  determinare  il  tempestivo
intervento dell'autorita' giudiziaria, ma certamente non e' idoneo ad
impedire  che  una  sia  pur  temporanea  limitazione  della liberta'
personale abbia luogo: trattandosi di una limitazione che, come si e'
detto,  appare  consentita dalla legge in contrasto con la previsione
dell'art. 13 della Costituzione, non sembra che possano avere rilievo
«soglie quantitative» piu' o meno basse, soprattutto considerando che
la  limitazione  viene  arrecata nella forma piu' grave, quella della
detenzione.
    Ma  in  verita',  si ha perfino ragione di dubitare che l'art. 14
del  d.lgs.  n. 286/1998  introduca una implicita e necessaria deroga
all'art. 121  disp.  att. c.p.p., laddove dispone che «si procede con
rito   direttissimo».   Invero,  sebbene  non  sia  astrattamente  da
escludere  che  un  giudizio  direttissimo  possa  celebrarsi,  entro
quarantotto  ore,  nei  confronti di indagato rimesso in liberta', si
deve  prendere  atto  che la norma non disciplina in alcun modo come,
nei   ristrettissimi  tempi  anzidetti,  debba  essere  formulata  la
contestazione  da  parte  del  p.m., la stessa debba essere portata a
conoscenza dell'imputato e questi debba essere convenuto in giudizio:
e  lascia  dunque  desumere  che  la ratio ad essa sottostante sia in
realta'  quella  di  condurre  l'imputato al giudizio direttissimo in
stato di detenzione.
    Ebbene,  interpretata  in  questo  senso,  la  norma risulterebbe
ancora  piu'  in contrasto con le disposizioni costituzionali perche'
prevederebbe  in sostanza che il p.m. abdichi al suo potere/dovere di
controllare,  almeno  sotto  il profilo della sussistenza di esigenze
cautelari,  l'operato  della  polizia  giudiziaria, facendogli in tal
modo  dismettere  la  funzione  assegnatagli  dalla  Costituzione, e,
corrispondentemente,  esalterebbe  ancor piu' l'espansione dei poteri
della  polizia  giudiziaria, con ancora piu' accentuato contrasto con
l'art. 13  della  Costituzione.  In  piu',  introdurrebbe  una  grave
disparita'  di trattamento tra la persona che, arrestata per il reato
in  considerazione  (contravvenzione  punita  con  pena  edittale non
particolarmente     afflittiva)    e    certamente    non    soggetta
all'applicazione  di  alcuna  misura  cautelare, si vedrebbe comunque
esposta  alla  concreta  possibilita' di necessaria detenzione fino a
quarantotto  ore;  e  la  persona che, arrestata per delitto ben piu'
grave  ma rientrante nella disciplina generale, potrebbe confidare in
una  tempestiva  liberazione  sebbene  per  l'illecito  commesso  sia
astrattamente   applicabile  perfino  la  custodia  in  carcere:  con
conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    Il  tutto,  si  noti,  in  un  contesto  nel quale le esigenze di
carattere  amministrativo  potrebbero  comunque  essere adeguatamente
salvaguardate, atteso che, espressamente, la norma stabilisce che «al
fine  di  assicurare  l'esecuzione dell'espulsione», il questore puo'
disporre  il  trattenimento  dello  straniero  presso  un  centro  di
permanenza temporanea (art. 14, comma 5-quinquies).
    Ravvisabile contrasto tra l'art. 14, comma 5-quinquies e l'art. 3
della Costituzione.
    Sotto  diverso  ed  ulteriore profilo la previsione dell'art. 14,
comma  5-quinquies appare suscettibile di censura. La disposizione in
esame, infatti, introduce la previsione dell'arresto obbligatorio nei
confronti di chi sia indagato del reato previsto dal precedente comma
5-ter.  Ora,  e'  ben  vero  che la valutazione circa la gravita' del
fatto  e  la conseguente necessita' di procedere comunque all'arresto
di   chi   ne   appaia   responsabile,   e'  valutazione  rimessa  al
discrezionale  apprezzamento  del legislatore, come tale sottratto in
genere ad un giudizio di costituzionalita' in relazione all'eventuale
violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    Nel  caso  di  specie,  peraltro,  il  confronto,  tra le diverse
fattispecie  e'  cosi'  ravvicinato  e  stringente  da  far  apparire
possibile una diversa soluzione.
    Invero,  l'art. 13,  comma 13-ter introduce l'arresto facoltativo
(in  tal  senso  sembra  corretto  intendere l'espressione «e' sempre
consentito»):
        in  relazione al reato previsto dal precedente comma 13, che,
in  quanto  sostanziantesi nella condotta dello straniero espulso che
fa rientro nello Stato ed in quanto punito con pena identica a quella
comminata  dal  reato  previsto  dall'art.  14,  comma  5-ter, appare
valutato   dal   legislatore   di   pari  gravita',  per  sostanziale
omogeneita' della condotta e per identita' della sanzione;
        in  relazione  al reato previsto dal precedente comma 13-bis,
che, nella stessa evidente valutazione del legislatore, e' assai piu'
grave,  trattandosi  di  trasgressione  ad  un  divieto  espresso dal
giudice,  configurato  come  delitto punito con pena della reclusione
fino  a  quattro anni e dunque suscettibile di applicazione di misura
cautelare.
    Sembra dunque corretto ritenere che l'art. 14, comma 5-quinquies,
prevedendo  l'arresto  obbligatorio  del  contravventore,  riservi al
medesimo   un   trattamento  decisamente  piu'  affittivo  di  quello
riservato,  per fatti analoghi o addirittura piu' gravi, nel medesimo
testo   normativo,   senza   che,  dalle  norme,  sia  desumibile  la
sussistenza  di  una  indicazione  di  ragionevolezza  di  una simile
scelta.
    Per i motivi ora esposti, ritiene questo Tribunale che sussistono
seri  dubbi  di  legittimita'  della  norma  in esame e che, da cio',
consegua la necessita' di sospensione del procedimento per sottoporre
la questione al Giudice delle leggi.
    La necessita' di sospensione del procedimento ha imposto comunque
(cfr.  ordinanza emessa all'udienza del 14 novembre 2003), in assenza
di  richieste  di  misure  cautelari  da parte del p.m. (precluse per
legge)  la immediata rimessione in liberta' dell'imputata in mancanza
di adeguato titolo detentivo.